La poesia eroica di Giacomo Leopardi (1960)

W. Binni, La poesia eroica di Giacomo Leopardi, «Il Ponte», a. XVI, n. 12, Firenze, dicembre 1960, pp. 1729-1751, poi in W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973, 1974, 1977, 1980, 1982, 1984, 1988, Milano, Sansoni, 1995. È il testo di un intervento tenuto a Recanati in occasione della ricorrenza della nascita di Leopardi, il 29 giugno 1960.

LA POESIA EROICA DI GIACOMO LEOPARDI

Invitato a parlare di Giacomo Leopardi nel giorno della sua nascita in cui Recanati rende annualmente omaggio al suo grandissimo figlio, ho creduto di servir meglio a questa celebrazione con un discorso che fosse insieme l’espressione piú autentica del mio personale omaggio di critico da tanto tempo impegnato nella interpretazione della poesia e della personalità leopardiana. E mi è sembrato che il mio omaggio piú schietto e meditato, pensando proprio di parlar qui, nei luoghi, nel giorno della sua nascita, per Leopardi e a Leopardi, non potesse essere se non la presentazione nuovamente controllata, ad un livello piú maturo di esperienza critica, di quell’aspetto della poesia e della personalità leopardiana che mi par di aver meglio contribuito a individuare e confermare attraverso un lungo e intenso contatto critico (per me certo il piú appassionato e decisivo della mia ormai lunga vicenda di incontri con i poeti e insieme il primo e legato alla zona fervida della gioventú): un aspetto per me essenziale non solo per la comprensione e la valorizzazione di un preciso periodo della poesia leopardiana, ma attraverso questa, per una generale comprensione della complessa personalità del nostro massimo poeta ottocentesco rispetto a immagini e interpretazioni di lui che, particolarmente autorevoli e dominanti quando io, intorno al ’34, iniziai il mio lavoro sul Leopardi, mi apparvero allora, e mi appaiono tanto piú ora, insufficienti e parziali.

Mi riferisco soprattutto (non potendo qui dilungarmi in una minuta verifica della critica leopardiana e dei suoi recenti spostamenti) alla interpretazione del Croce che, portando alle estreme conseguenze la tesi desanctisiana della natura idillica leopardiana (e sostanzialmente privandola di tanti altri spunti e motivi tuttora validi e stimolanti), impostò un’immagine del Leopardi come poeta solamente dell’idillio e poeta dell’idillio in quanto personalità incapace di sviluppo e di impegno vivo nella storia, «spettatore alla finestra», uomo «dalla vita strozzata» secondo i termini estremi di una diagnosi cosí poco storica e alla fine piú patologica che critica.

Orbene quella immagine del Leopardi che pur contribuiva – in accordo con altre e diverse e sensibili interpretazioni sollecitate dal gusto della poesia pura di origine postsimbolistica ed ermetica – a rilevare fortemente la grandezza e la perfezione della poesia idillica, il supremo valore lirico dei canti del periodo pisano-recanatese e la loro coerenza con gli spunti piú profondi e moderni della poetica dello Zibaldone, aveva in sé il grosso rischio di una riduzione inaccettabile della intera personalità leopardiana e delle sue possibilità di altra poesia, di una incomprensione di altri aspetti e motivi del grande poeta e, a ben guardare, finiva per impoverire la stessa poesia idillica privandola dei suoi fermenti piú generali, del suo vitale rapporto dialettico con altri motivi e tensioni poetiche, spirituali, morali, non riducibili nell’ambito della natura e della poetica idillica, sino al rischio poi di definizioni, che non mancarono, di Leopardi come ultimo seppur divino «pastorello d’Arcadia».

Sicché le stesse sublimi figure poetiche idillico-elegiache di Silvia o Nerina potevano perdere quella profonda risonanza elegiaca, che sale dall’ansia di un recupero, nell’armonia del ricordo, di una disperata tensione alla felicità e alla partecipazione personale alla vita, acuita dalla diagnosi, denuncia e protesta pessimistica sulla situazione esistenziale degli uomini, che nel Leopardi erano ben motivi autentici e radicali, pertinenti alla sua natura, alla sua posizione ideale e alla sua esperienza vitale e storica, e non vane, inutili o sol patetiche aspirazioni di un uomo chiuso alla vita e alla storia, incapace di vivere e di esprimersi se non nella direzione della contemplazione e del ricordo.

E infatti, se nessuno – ed io meno d’ogni altro – vorrà negare la perfezione della poesia idillica, il tono lirico supremo attinto dal Leopardi nella dorata maturità del periodo pisano-recanatese (da A Silvia al Canto notturno), occorrerà pur rendersi conto che quella poesia, nella sua serenità luminosa e malinconica (in cui comunque l’elegia è essenziale componente e il quadro armonico e limpido vive nell’onda di un rimpianto e di una vibrazione sentimentale fortissima) non avrebbe raggiunto tale perfezione se non fosse cresciuta entro una dialettica vitale e poetica piú complessa, non avrebbe raggiunto la sua purezza se non fosse stata filtrata attraverso un eccezionale tormento di pensiero e di cultura, se non fosse stata sorretta da una partecipazione intensa del poeta ai grandi problemi della crisi romantica e da una forza spirituale e morale che solo giustificano l’assolutezza di quella voce e la distinguono da un dono puramente istintivo e gratuito di bel canto.

E come non poteva essere indifferente alla poesia leopardiana il suo profondo tormento speculativo (donde la comprensione almeno della prosa poetica delle Operette e del rapporto fra queste e i «grandi idilli» in critici pur fedeli alla preminente vocazione idillica del Leopardi) cosí non poteva essere indifferente alla poesia l’impegno morale ed eroico della personalità del Leopardi e del suo pensiero come aveva in qualche modo avvertito il De Sanctis quando aveva notato che la morale eroica è la parte piú poetica del pensiero leopardiano.

Solo che quella parte poetica del pensiero leopardiano era poi, piú di quanto sembrasse al grande critico romantico, parte non solo del pensiero ma dell’animo da cui quel pensiero traeva tale suo accento energico e cosí essa stessa era radice potenziale di poesia, era un modo del profondo sentire leopardiano, della sua originaria disposizione di esperienza vitale e sentimentale che nello svolgimento del poeta (tutt’altro che statico ed evasivo, tutt’altro che incapace di impegno e di vita nel presente e nella storia) venne cercando espressione poetica prima piú parzialmente entro forme insufficienti e immature, e nell’intreccio con il piú urgente motivo idillico. E poi – espresso totalmente il motivo idillico, risolto in intera poesia il momento idillico – raggiunse la poesia in una piú compatta zona (dal ’30 alla morte) in cui tutta la personalità leopardiana, con tutto il suo pensiero, con tutte le sue esigenze culturali e morali, si realizza in un supremo sforzo di affermazione di se stessa e in una direzione di poetica che non si può assolutamente comprendere nelle sue ragioni interne ed artistiche, e nei suoi risultati, se si resti fermi alla postulazione di un Leopardi unicamente idillico, e se non si comprenda la radicale pertinenza anche di motivi non idillici alla personalità e all’animo poetico leopardiano.

Una tensione eroica (risolvendo in questa parola un complesso modo di sentire e di vivere le cui implicazioni culturali e storiche rimanderebbero ad una lunga diagnosi della situazione del Leopardi nella crisi romantica e nell’epoca della restaurazione e del Risorgimento[1]) è radicale nella personalità leopardiana. E variamente se ne avverte vibrare l’accento nella lunga esperienza delle canzoni (per non dir poi della forza esasperata che assume in tante lettere giovanili, fra disperazione e ansia di vita in cui la stessa letteratura è sentita come mezzo di affermazione di una personalità eccezionale e ripresa storica di temi alfieriani e foscoliani), sia nelle canzoni patriottiche in cui piú chiaramente si configura in bisogno di azione e di intervento personale condotto fino a certa patetica ingenuità («l’armi, qua l’armi») e tuttavia, seppure poeticamente ancora improduttivo e appesantito e sviato da un eccesso di classicismo e di nazionalismo letterario, già qui dotato di un timbro di decisione, di coraggio, di impegno personale di cui non si può negare l’autenticità sentimentale e morale e la spinta a traduzione poetica.

E se ugualmente nella canzone Ad Angelo Mai, in quella Nelle nozze della sorella Paolina, o in quella A un vincitore nel pallone, l’impeto eroico che tende a riprendere le posizioni poetico-combattive dell’Alfieri, o l’appassionata ammirazione per Colombo e l’esaltazione delle virtú eroiche delle donne romane, e della bellezza nel rischio, si sviano di nuovo entro linee poetiche ancora incerte e risentono negativamente di una meno chiarita visione filosofica e culturale, a tutto ciò non manca una radice personale non mentita, un accento genuino di coraggio, una autentica esigenza di assoluto impiego delle proprio forze interiori e poetiche che trovano poi, in un piú risoluto e maturo raccordo di questa tensione eroica con le nuove conclusioni della indagine pessimistica (capovolto l’originario rousseauismo in una intuizione negativa della natura e dell’ordine delle cose) nuova e piú forte e personale espressione nel Bruto minore e nell’Ultimo canto di Saffo[2]. Dove piú coerentemente la posizione di denuncia della situazione umana e di protesta contro l’ordine ferreo ma inaccettabile delle cose, contro una realtà sostanzialmente sbagliata in cui i valori vivono battuti e pur non meno profondamente desiderati e onorati, si trasforma nell’urgente e coerente sostegno di una espressione poetica che vive il suo eroismo disperato e suicida in contenuti filosofici universali piú adatti alla profondità dell’impegno leopardiano e sembra, sulle soglie delle Operette, avviare il Leopardi ad una poesia piú vicina a posizioni romantiche europee: fra il piú esteriore Caino di Byron e il Gesú nell’orto di Getsemani di De Vigny.

Ma certo, nella dinamica dello svolgimento leopardiano, quegli spunti eroici erano ancora incapaci di imporsi come elemento continuo e dominante nella poesia e nella poetica leopardiana e finivano per essere riassorbiti come base intima di risonanza e di tensione dentro la poesia idillica (magari fino alle forme esplicite dell’invettiva contro Recanati che nelle Ricordanze ha pure una sua funzione di tensione rispetto al grande finale) che non con autonome capacità di propria espressione.

Mentre ebbero la forza di farsi autonoma e costante direzione poetica quando tornarono a premere urgenti, e legate a tutta una nuova maturazione dell’animo leopardiano, ad una nuova tensione del pensiero, a un nuovo alto senso del proprio valore e del valore delle proprie idee e delle posizioni ideologiche cui esse si riferivano, quando la conclusione e l’effettiva realizzazione dell’ispirazione idillica coincise con l’apertura di speranze nuove e di nuove possibilità di vita tanto piú stimolanti. Ciò soprattutto dopo l’analisi e lo scavo intellettuale e poetico delle Operette (in cui capriccio melanconico, analisi e denuncia si impastano preparando la poesia idillica, ma insieme formulando posizioni che solo dopo di questa verranno riassunte in prospettiva polemica ed eroica), dopo l’altissimo sfogo e disacerbamento fra memoria e illusioni nel triste e dolcissimo ultimo confino recanatese.

Sicché gli elementi non idillici, la rinnovata tensione del pensiero, il senso alto del proprio valore, delle proprie idee e delle posizioni ideologiche e culturali cui esse si riferivano, vennero a prender nuova forza e coerenza proprio quando la conclusione e l’effettiva realizzazione intera dell’ispirazione idillica coincise con l’abbandono di Recanati, «nido di sogni» ma anche prigione e limite di affermazione vitale, con l’apertura di speranze nuove e di nuove possibilità di vita tanto piú energicamente accettate e stimolanti al termine del soggiorno recanatese. In cui il compenso della grande poesia era stato però pagato al caro prezzo del timore di una perpetua esclusione da una vita di attività e di affetti e di rapporti culturali ed umani, in climi di maggior vitalità culturale e di stimolo intellettuale, cui il Leopardi intensamente aspirava, tutt’altro che compiaciuto (come sarebbe stato di un uomo solamente idillico, di uno spettatore alla finestra) del cerchio incantato del ricordo e della stessa grande poesia del ricordo e del rifugio della rievocazione triste e dolce dell’infanzia e dell’adolescenza.

Il desiderio e il bisogno di vita risorgeva, ma senza le illusioni giovanili cosí smisurate che avevano subito ceduto di fronte alla realtà nel primo viaggio a Roma del ’23 e d’altra parte con una diversa consapevolezza e direzione di fronte al «risorgimento» pisano che, fin dall’avvio ritmico metastasiano dell’omonima poesia, volgeva a un prevalente bisogno di altissimo idillio.

Quando il Leopardi era partito – e per sempre – da Recanati il 29 aprile del 1830, il suo commiato dalla casa paterna e dalla terra natale era stato davvero il commiato da un mondo sentimentale e poetico ormai interamente espresso e consumato nelle sue precise esigenze. Nell’animo del poeta, tutt’altro che inaridito e svuotato di risorse poetiche, si era ormai esaurito il fascino di un mondo di ricordi e di nostalgia luminosa e malinconica e ad esso subentrava un impulso di vita attiva, una considerazione piú immediata e combattiva del presente, un’esigenza non di compensi di passata felicità e illusioni riscaldate nella rievocazione, o di figure femminili labili e struggenti nel ricordo, ma di affetti, di persone reali, di impegni sentimentali e morali e di esercizio del proprio valore consapevole e risoluto.

E, sullo stimolo delle occasioni della nuova vita fiorentina (fra la ripresa delle amicizie precedenti e l’aprirsi dell’appassionata amicizia per il Ranieri e di quella sfociata poi in passione per la Targioni Tozzetti) un accento piú intenso e vibrato si fa avvertire – anche se con varie colorature di fervore e di sdegno – nelle lettere ai familiari e agli amici, un accento che pertiene ad un nuovo atteggiamento di uomo fortemente vivo fra gli uomini, ad una sicurezza di sé e ad un’ansia di chi attende e pretende qualche grazia non illusoria dalla vita e si allontana decisamente da una contemplazione tutta interna dei propri affetti e ricordi verso una speranza e volontà di incontri e di impegni. E di chi insieme, piú che mai, sente la propria dignità e imprime al proprio pensiero un nuovo vigore e un valore esemplare ed attivo, e non è disposto a tollerare nessuna detrazione a quella assoluta coincidenza fra pensiero ed azione che considera con orgogliosa schiettezza come carattere fondamentale della propria personalità e della propria cultura e della propria poesia, con una profondità e forza di consapevolezza di se stesso che sembra qui fare affiorare in piú decise forme morali risolute la stessa schiettezza, la verità interna, la sincerità senza ombra di retorica che è pur carattere supremo della poesia leopardiana in tutte le sue zone piú alte e sicure e nella sua radicale natura al di là di ogni diversità di tematica e di poetica[3].

Sia che egli insorga con fermezza contro i pettegolezzi che mettevano in dubbio la sua costanza ideale e anticipavano malignamente comode sistemazioni prelatizie e burocratiche a Roma, pagate a prezzo di compromessi e di rinunce alle proprie idee («Questo amerei che ripeteste – scrive al Vieusseux il 27 ottobre 1831 – a chi parla di prelature o di cappelli, cose ch’io terrei per ingiurie se fossero dette sul serio. Ma sul serio non possono essere dette se non per volontaria menzogna, conoscendosi benissimo la mia maniera di pensare, e sapendosi ch’io non ho mai tradito i miei pensieri e i miei principii colle mie azioni»[4]) sia che si rivolga – e in francese per consapevole e volontaria presa di posizione su di un piano europeo a cui sentiva ormai di appartenere – al De Sinner – 24 maggio 1832 – per rifiutare con veemente e sicurissimo sdegno l’interpretazione patologica del suo pensiero: «Ç’a été par suite de ce même courage, qu’étant amené par mes recherches à une philosophie désespérante, je n’ai pas hésité à l’embrasser toute entière; tandis que de l’autre côté ce n’a été que par effet de la lâcheté des hommes, qui ont besoin d’être persuadés du mérite de l’existence, que l’on a voulu considérer mes opinions philosophiques comme le résultat de mes souffrances particulières, et que l’on s’obstine à attribuer à mes circonstances matérielles ce qu’on ne doit qu’à mon entendement. Avant de mourir je vais protester contre cette invention de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s’attacher à détruire mes observations et mes raisonnements plutôt que d’accuser mes maladies»[5]. Coraggio contro viltà e volgarità, filosofia disperante ma dedotta da un risoluto impiego della ragione e dalle conclusioni di una sofferta, virile esperienza ed eroicamente abbracciata e vissuta senza compromessi.

Una congiunta fiducia nella propria forza morale e filosofica, nelle proprie posizioni e nel proprio modo di vita, una persuasione che sembra riprendere con nuova forza matura tante precedenti indicazioni della risoluta moralità leopardiana (sin dalla lettera al padre dopo la fuga fallita) e consolidare e muovere in direzione pragmatica e combattiva il pensiero e l’atteggiamento morale in una svolta decisiva avvalorata da un’esperienza piú sicura della propria personalità e del suo significato, nel presente e non piú nella rievocazione di beate zone lontane, di miti vaghi e arcani.

Ché queste parole cosí leopardiane tornano pure nel canto con cui la poesia, dopo un lungo intervallo, riprende a sgorgare con diverso tono e pur sempre con grande altezza: ma mondi arcani aperti affettivamente da un’esperienza che se pur poi si rivelerà illusoria per la incapacità della persona amata di essere all’altezza del pensiero di amore vivo nel poeta, in quel momento fu vissuta come reale e tale da imprimere energico moto ad una poesia del presente, ad una poesia di persuasa affermazione della propria personalità eroica e vitale entro nuove esperienze e nuovi modi di esperienza.

Come fu l’esperienza cui il Leopardi sembra alludere nel profondo pensiero LXXXII, essenziale a capire questa nuova fase della vita e della poesia leopardiana: «Nessuno diventa uomo innanzi d’aver fatto una grande esperienza di sé, la quale rivelando lui a lui medesimo, e determinando l’opinione sua intorno a se stesso, determina in qualche modo la fortuna e lo stato suo nella vita... Il conoscimento e il possesso di se medesimi suol venire o da bisogni e infortuni, o da qualche passione grande, cioè forte; e per lo piú dall’amore; quando l’amore è gran passione; cosa che non accade in tutti come l’amare... Certo all’uscire d’un amor grande e passionato, l’uomo conosce già mediocremente i suoi simili, fra i quali gli è convenuto aggirarsi con desideri intensi, e con bisogni gravi e forse non provati innanzi, conosce ab esperto la natura delle passioni, poiché una di loro che arda, infiamma tutte l’altre; conosce la natura e il temperamento proprio; sa la misura delle proprie facoltà e delle proprie forze... In fine la vita a’ suoi occhi ha un aspetto nuovo, già mutata per lui di cosa udita in veduta, e d’immaginata in reale; ed egli si sente in mezzo ad essa, forse non piú felice, ma per dir cosí, piú potente di prima, cioè piú atto a far uso di sé e degli altri»[6]. Nel canto cui accennavo – Il Pensiero dominante – il valore profondo di un’esperienza appassionata (l’amore per Aspasia, indiscutibile qualunque ne sia stata la precisa favola biografica), svolta poi, nei canti successivi, sino ad Aspasia, confluisce con quel nuovo, piú intenso e sicuro sentimento di sé (un amor proprio, per dirla leopardianamente, meno intellettualmente indagato e piú impetuosamente, eroicamente esercitato sino ai margini piú ambigui di certo titanismo romantico[7] da cui Leopardi si distacca per una chiarezza speculativa e una schiettezza e sobrietà morale tanto maggiori) che trovava appoggio insieme e centralmente stimolava la nuova e piú decisa direzione del suo pensiero, del suo pessimismo fattosi energico ed attivo.

E se poi, nell’arco assai articolato del periodo che va fino alla morte, occasioni ed esperienze e atteggiamenti di pensiero e di poetica verranno a precisarsi con sfumature diverse (e con diversi risultati di poesia), un accento fondamentalmente unitario, un’impostazione centrale della personalità e della poetica, che ne indirizza a traduzione artistica le esigenze fondamentali, son ben ritrovabili lungo tutto il periodo e si saldano alla maturazione decisiva manifestatasi dopo la partenza da Recanati, in coincidenza con l’amore fiorentino, con le nuove amicizie, col fervore e il rigore combattivo e persuaso che colora severamente e virilmente il nuovo prospettarsi del pensiero e della filosofia «disperata, ma vera».

Tutto è toccato da questo piú intenso accento di verità, di coraggio, di presenza personale, di impegno, di persuasione, di sentimento eroico in ogni aspetto della propria vita e attività. Donde una poetica (una direzione cioè ispirata e consapevole delle proprie forze creative, un avvio costruttivo della propria fantasia impiegata secondo precise tendenze e prospettive, secondo natura e calcolo artistico sempre inseparabili in ogni vero poeta)[8] che si precisa quasi in antitesi con quella idillica e che riprende idealmente esperienze giovanili imperfette e immature nel loro spunto piú congeniale ed autentico disponendo in linee di costruzione poetica, in termini di linguaggio, in ritmi e cadenze musicali coerenti, le nuove esperienze di vita e di sentimento, con una novità che può apparire persino sconcertante per chi parta troppo pacificamente dall’immagine e dalla realtà piú risolta della poetica idillica, in cui anche gli elementi di tensione piú esplicita, i temi di protesta o di ironia, di Weltschmerz (fra certi passaggi delle Ricordanze e del Canto notturno e la cortese natura della Quiete) si risolvevano, si disacerbavano nel superiore clima contemplativo e idillico-elegiaco, nelle tenere e melodiche invocazioni in cui l’ansia dell’inchiesta di massimi problemi esistenziali si conclude armonicamente in curve malinconiche pure, inscritte su sfondi perfetti e vaghi sorti da una consuetudine poetica di accordi profondi e musicali fra paesaggio e ricordo, sogno e moti dell’animo dolente e rasserenato nel canto.

E basta infatti intonare un inizio dei grandi canti recanatesi e poi aprire bruscamente il primo canto nuovo – Il pensiero dominante – per capire certe sorprese e anche certe incomprensioni legate alla valutazione dei nuovi canti sul metro assoluto dei «grandi idilli» (come di chi dopo una consuetudine lunga e ben giustificata con la Pastorale beethoveniana non riuscisse ad apprezzare la Settima o la Nona cosí diverse e pur cosí grandi).

Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,

silenziosa luna?...

Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea

tornare ancor per uso a contemplarvi

sul paterno giardino scintillanti...

E dal nuovo versante della poesia leopardiana, cosí diversa e pur grande e cosí leopardiana, risuona l’apertura perentoria e persuasa del nuovo canto, voce dell’animo che vive e assevera un’esperienza assoluta e presente, di estasi reale, non immaginaria e recuperata solo nel ricordo, sostenuta da un’eccezionale intensità personale tutta còlta e concentrata qui, nel presente, e al culmine di una vita di cui si identifica, nella nuova esperienza esaltante del pensiero d’amore, la maturazione e la conquista suprema:

Dolcissimo, possente

dominator di mia profonda mente;

terribile, ma caro

dono del ciel; consorte

ai lugubri miei giorni,

pensier che innanzi a me sí spesso torni.

Di tua natura arcana

chi non favella? Il suo poter fra noi

chi non sentí? Pur sempre

che in dir gli effetti suoi

le nostre lingue il sentir proprio sprona,

par novo ad ascoltar ciò ch’ei ragiona.

Come solinga è fatta

la mente mia d’allora

che tu quivi prendesti a far dimora!

Ratto d’intorno intorno al par del lampo

gli altri pensieri miei

tutti si dileguar. Siccome torre

in solitario campo,

tu stai solo, gigante, in mezzo a lei.

Impostata sui due aggettivi tematici del primo verso (un’estasi amorosa di cui si accentua soprattutto la forza perentoria di completo possesso dell’animo) quella prima strofa pare davvero il simbolo concreto e il termine di intonazione fondamentale del nuovo atteggiamento poetico in cui la personalità si presenta convinta e sicura, profondamente immedesimata nel ritmo incalzante, deciso, ascendente fino all’ultimo verso che non si adagia e risolve in armonico canto ed anzi si solleva ancora piú forte e battuto:

pensier che innanzi a me sí spesso torni.

Ogni parola è diretta e scelta da una sua funzione di energia, espressione di una vita urgente di sentimenti presenti, di un presente sentimentale di fronte al quale il passato si scolorisce, perde il suo fascino di idillio-elegiaco, come il paesaggio si fa coerentemente piú elemento di tensione che di distensione e di disacerbamento: paesaggio nudo e potente, piú scolpito che dipinto e saldamente unito al piú generale paesaggio severo e intenso dell’animo che, nella presenza del pensiero d’amore e nella espressione poetica di questo sentimento, ha trovato la possibilità concreta di tradurre il suo nuovo modo di affrontare la vita e la poesia.

Cambiato è l’atteggiamento del poeta rispetto alla vita, cambiata la considerazione di se stesso: il presente non è eluso e respinto nel ricordo e nell’armonia del paesaggio, e le stesse illusioni sembrano ora farsi vive e reali nella passione amorosa e seppure il poeta sa che essa è filosoficamente «sogno e palese error», qui soprattutto ne esprime l’aspetto di certezza, di esperienza positiva che rafforza la consapevolezza del poeta di appartenere ad un mondo superiore, eletto, eroico, vivo nelle grandi passioni e in una virile accettazione di princípi disperati, ma veri, contrapposto al mondo inferiore del comunque vivere, della mediocre umanità, frivola e bisognosa di credenze consolatrici ed ottimistiche che alla filosofia leopardiana appaiono prive di ogni serio fondamento di esperienza razionale ed esistenziale. E questo nuovo atteggiamento, in cui il Leopardi concreta, a nuovo livello di maturità, le componenti eroiche del suo animo, si attua, ripeto, in una nuova poetica la cui coerenza, fino ai piú minuti particolari stilistici avrebbe dovuto pur dar molto da pensare a quei critici che videro questo periodo come decadenza o frammentario balenar di poesia malgrado e dentro una sconsolante prosasticità, invitandoli a considerare il fatto che il Leopardi aveva ben consapevolmente indirizzato la sua forza spirituale e fantastica in una direzione espressiva tutt’altro che casuale e d’altra parte tutt’altro che meccanicamente scontata dalla semplice applicazione di una esperienza precedente o di formule letterarie tradizionali.

Fortemente inventivo e fortemente coerente, qui il Leopardi affermava una nuova poetica di tipo piú apertamente romantico, piú vicina tematicamente e stilisticamente a forme di poesia romantica europea (Vigny, Shelley, Hölderlin), ma profondamente sua, sia nel raccordo con le sue prove giovanili non idilliche, sia soprattutto nella sua necessità intima di risposta alle esigenze della sua personalità in questa sua ulteriore maturazione.

Sicché, già a considerare solo il Pensiero dominante, si può facilmente notare come sia cambiata la costruzione poetica leopardiana: non piú la costruzione armonica e conclusa del Sabato e della Quiete, non piú la costruzione sulla scia luminosa e struggente della memoria nelle Ricordanze, ma una costruzione tesa in strofe compatte, energiche, ascendenti, in cui il motivo dominante preme dall’interno di un centro irradiante e si traduce nello scatto intenso dei versi, nella impostazione frontale delle strofe, nella risoluta forza delle parole che rilevano e staccano continuamente un presente piú sicuro e pieno, un senso di certezza del proprio valore e della propria persuasione, vivi nell’inseparabile unità semantica, figurativa e fonica della parola.

E sin nell’impiego delle interrogazioni, cosí frequenti nel Leopardi e nella sua superiore traduzione poetica idillico-elegiaca di tutto un modo stilistico sentimentale che sale in lui dall’elegia preromantica e ossianesca[9], quelle hanno chiaramente assunto una diversa funzione non piú di affettuoso avvicinamento di figure e simboli cari e lontani, di tenera e dolce elegia idillica, ma di invocazione ardente o di impetuosi moti di sdegno con cui la personalità intera (e l’impegno di identificazione di tutta la personalità nella poesia è fondamentale in questo ultimo Leopardi) esprime il suo intervento nella vita e nel presente.

Come avviene nel finale del Pensiero dominante (esemplare a comprendere i caratteri della nuova poetica oltre che ovviamente come concreto documento delle possibilità leopardiane di grande poesia anche dopo il periodo idillico) in cui la serie intensa e progressiva delle espressioni amorose trova soluzione nell’invocazione diretta alla donna (anch’essa ben lontana dalle figure liete e pensose di Silvia e Nerina), in un piú forte incalzare delle interrogazioni ansiose assorte od urgenti, confermanti una brama e un possesso interiore e attuale, in un sollevarsi della strofa ben diversamente dai finali conclusi e musicalmente armonici dei grandi idilli:

Da che ti vidi pria,

di qual mia seria cura ultimo obbietto

non fosti tu? quanto del giorno è scorso,

ch’io di te non pensassi? ai sogni miei

la tua sovrana imago

quante volte mancò? Bella qual sogno,

angelica sembianza,

nella terrena stanza,

nell’alte vie dell’universo intero,

che chiedo io mai, che spero

altro che gli occhi tuoi veder piú vago?

altro piú dolce aver che il tuo pensiero?

Forme di ritmo, di linguaggio, di costruzione tematica che sostanzialmente caratterizzano per tutto il periodo ultimo questa nuova poetica della personalità che si afferma nel presente con i suoi posseduti motivi di nuova certezza e persuasione ideale e morale, con il suo bisogno di completo impiego della sua energia morale e fantastica intorno a temi e termini di ardente aspirazione e di interiore possesso: l’amore prima, l’amore e la morte poi, e piú la morte (quando l’esperienza amorosa vien rivelando a poco a poco il suo margine di non coincidenza fra il pensiero amoroso e la donna amata) sentita non come rifugio ed evasione, ma come suprema meta di possesso eroico di se stesso e della propria disperata e virile concezione della vita e del mondo.

E proprio questa concezione, intrecciata e fusa con il motivo dell’altezza e fratellanza di amore e morte (privilegio di animi superiori e potenzialmente eroici qualunque sia la loro condizione sociale e culturale) e con l’impeto ardente e funereo che risulta da quella fratellanza e dallo scambio delle qualità dei due signori dell’umana famiglia, viene piú chiaramente ad esprimersi, nel finale di Amore e morte, in grande poesia. Di cui, anche sul piano ideale, non si potrà non sentire l’estrema profondità della persuasione che la sostiene, la partecipazione totale di tutta una vita coerente ed eroica, sofferta e scontata sino in fondo personalmente, e la forza e la purezza poetica, l’incandescente violenza e la perfezione nuovissima dello slancio lirico in cui la polemica metafisica, la protesta contro la natura, sentita come un potere neroniano che gode di porre gli uomini nella sofferenza e nel disquilibrio drammatico fra il loro animo insaziato e la realtà meschina e insufficiente, si sublimano (non per distensione, ma per equilibrio in tensione) nell’altissima evocazione di una figura virginea, alta come la figura della speranza in A Silvia, ma con quale diversa direzione sentimentale e con quale diversa tecnica e con quale diversa complessità di movimenti ideali e poetici:

Ai fervidi, ai felici,

agli animosi ingegni

l’uno o l’altro di voi conceda il fato,

dolci signori, amici

dell’umana famiglia,

al cui poter nessun poter somiglia

nell’immenso universo, e non l’avanza,

se non quella del fato, altra possanza.

E tu, cui già dal cominciar degli anni

sempre onorata invoco,

bella Morte, pietosa

tu sola al mondo dei terreni affanni,

se celebrata mai

fosti da me, s’al tuo divino stato

l’onte del volgo ingrato

ricompensar tentai,

non tardar piú, t’inchina

a disusati preghi,

chiudi alla luce omai

questi occhi tristi, o dell’età reina.

Me certo troverai, qual si sia l’ora

che tu le penne al mio pregar dispieghi,

erta la fronte, armato,

e renitente al fato,

la man che flagellando si colora

nel mio sangue innocente

non ricolmar di lode,

non benedir, com’usa

per antica viltà l’umana gente;

ogni vana speranza onde consola

sé coi fanciulli il mondo,

ogni conforto stolto

gittar da me; null’altro in alcun tempo

sperar, se non te sola;

solo aspettar sereno

quel dí ch’io pieghi addormentato il volto

nel tuo virgineo seno.

Introdotta da quel fervido ed esaltante movimento in cui il poeta identifica romanticamente un’umanità superiore in quegli uomini che sono aperti alla passione profonda dell’amore e al senso alto, eroico della morte come liberazione dalla frivolezza dei compromessi con se stessi e dall’istintivo attaccamento all’esistere (e dietro c’è la lezione alfieriana piú pura e profonda), l’invocazione alla morte, appoggiata sul «tu» altissimo di superiore, religioso colloquio, si svolge in un periodo poetico di straordinaria complessità e originalità, in cui la comune sintassi appare travolta da un ritmo perentorio, urgente, che trascina con sé dolci e intense allusioni amorose (che nella prima parte del canto si erano allargate in quadri che portano un nuovo senso piú realistico e romantico), violente, tormentose immagini inquisitoriali e che pure le svolge in un’onda impetuosa ma chiarissima, tutt’altro che enfatica, su cui si innalzano la personalità del poeta ribelle ed eroico e l’immagine della morte di limpida e severa bellezza.

E se dopo Amore e Morte il poeta poté scendere ad una poesia tanto inferiore qual è il Consalvo – quasi una novella romantica in cui un patetismo febbrile, una fantasticheria amorosa piú torbida turbano la purezza della grande poesia come in una ricerca troppo diretta di compenso alla passione sempre piú chiaramente sfortunata – la delusione finale dell’amore fiorentino trova nel brevissimo canto A se stesso una nuova prova di eccezionale originalità troppo spesso scambiata, da critici puro-sensibilisti e fermi all’immagine del Leopardi solo idillico, per un acre sfogo ingeneroso e prosastico. Ma chi abbia compreso la componente eroica dell’animo leopardiano e la sua piena espansione in questo periodo, può ben sentire in questi versi apparentemente staccati, e apparentemente lapidari, freddi e statici, in queste mosse brevi e spezzate, dei veri e profondi slanci lirici contenuti da una forza interiore e stilistica superiore, (movimenti potenti rappresi in un’estrema concentrazione e tesi in una linea fratta, ma continua intimamente fino al grandioso solenne finale cosmico, con il suo profondo e cupo suono di organo), volta a tradurre un’estrema tragica protesta contro la natura e contro ogni facile compromesso sentimentale, contro ogni disvalore. Disvalore in cui (in questa suprema separazione della parte piú intima ed eroica dell’animo leopardiano e tutto ciò che le si contrappone) viene compresa anche la parte piú sensibile, il cuore, cioè quella parte di sé che ha ceduto a ciò che ora gli appare un inganno e che viene cosí nettamente separata dal centro piú intatto della sua personalità consapevole e ribelle che può ancora esser cosí salvata e alzare questa estrema protesta:

Or poserai per sempre,

stanco mio cor. Perí l’inganno estremo,

ch’eterno io mi credei. Perí. Ben sento,

in noi di cari inganni,

non che la speme, il desiderio è spento.

Posa per sempre. Assai

palpitasti. Non val cosa nessuna

i moti tuoi, né di sospiri è degna

la terra. Amaro e noia

la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.

T’acqueta omai. Dispera

l’ultima volta. Al gener nostro il fato

non donò che il morire. Omai disprezza

te, la natura, il brutto

poter che, ascoso, a comun danno impera,

e l’infinita vanità del tutto.

Poesia in cui la tendenza antiidillica ed eroico-pessimistica giunge ad una espressione di estrema coerenza e autentica forza di originalissimo risultato poetico (viene fatto di pensare alla violenza e alla novità suprema di certi ultimi quartetti beethoveniani), giunge a un punto fermo nella storia poetica di questo periodo nella sua esemplare coerenza e forza di risultato poetico.

Ché l’ultimo canto della serie legata all’amore fiorentino, Aspasia, nella sua maggiore ricchezza e articolazione e novità di opulenta rievocazione realistico-ottocentesca (che va ben calcolata nelle nuove risorse e possibilità dell’ultimo Leopardi) e pur nella forza centrale che la unifica nel senso forte del presente piú alto e della personalità sicura e orgogliosa della propria superiorità e creatività di fronte alla donna reale, meschina e frivola (della cui immagine il poeta si libera rievocandola con una nuova forza di realismo e di sensualità e separandola violentemente dall’immagine interna pertinente al suo animo creatore di valori), ha pur un certo squilibrio poetico fra i vari elementi del risentimento, della rievocazione opulenta e della distinzione in certi punti troppo sottile: anche se, ripeto, al centro e ben viva rimane la forza pura con cui il poeta afferma la sua superiorità all’inganno femminile, ribadisce la sua persuasione eroica nella propria grandezza e nella grandezza dell’atteggiamento eroico, del pensiero virile e valido in cui egli si sente sempre piú decisamente affermatore e banditore con la sua vita e con la sua poesia.

Poi, al di là di Aspasia, negli ultimi anni e nelle ultime opere la forza poetica che era stata impiegata ad esprimere, nei canti dell’amor fiorentino, una varia ed unitaria forma del nuovo atteggiamento spirituale e lirico della personalità eroica del poeta, viene ora immessa piú decisamente nell’ambito di una ripresa delle posizioni filosofiche ed ideologiche leopardiane, la cui validità e profonda convinzione erano state già confermate con disperata energia nel Dialogo di Tristano e di un amico del ’32.

E sulla base della nuova coscienza del proprio valore personale e del valore del proprio pensiero, e del loro dovere e diritto di deciso intervento nella storia del proprio tempo, la posizione antiidillica si svolge in un atteggiamento sempre piú attivo e combattivo, a suo modo singolarmente «apostolico», salendo dai margini piú esterni della satira e della polemica (Palinodia, Nuovi credenti e piú al centro Paralipomeni, cosí nuovi e inquietanti e ricchi anche di moti poetici[10]) ad una centrale identificazione che vale come un nuovo modo di radicale unità lirica di poesia e di pensiero.

E mentre il poeta tenta (ed attua almeno nella Ginestra) un romanticissimo impiego della poesia come viva fondatrice di civiltà e di verità e dà al suo stesso pensiero una tanto piú chiara funzione attiva e sentimentale (tanto piú dunque traducibile poeticamente), lo stesso pensiero subisce effettive modificazioni, si adegua al nuovo generale bisogno di impegno del poeta, passa – sulla base antispiritualistica e antiottimistica ancor piú consolidata – da una posizione piú critico-analitica ad una posizione piú affermativa e combattiva, e anche attraverso una distinzione importantissima fra progresso umano ammesso come progresso di consapevolezza della situazione umana e di coerenti conclusioni pratiche sul piano di una costruzione di civiltà disillusa e solidale, e la negata perfettibilità spiritualistica delle magnifiche sorti e progressive[11] – supera il pessimismo piú statico delle Operette, fa della ragione un’arma solida con cui gli uomini possono e devono liberarsi da miti e consolazioni superbe e frivole e con cui il Leopardi prende sempre piú deciso partito nella storia del suo tempo, in tutte le sue dimensioni ideologiche spirituali e politiche, per lui inseparabilmente congiunte.

E cosí decisamente avversa insieme la filosofia spiritualistica come filosofia della Restaurazione e i sistemi politici reazionari del De Maistre e del De Bonald, condanna duramente i Dialoghetti di Monaldo e a questo, che gli scriveva amareggiato per le sue sfortune di sostenitore del trono e dell’altare non gradito dal governo pontificio, risponde in una lettera del ’36, affettuosa e decisa, delineando con chiarissime parole il suo inequivoco giudizio sui regimi assoluti e «legittimisti della Restaurazione»: «i legittimi (mi permetterà di dirlo) non amano troppo che la loro causa si difenda con le parole, atteso che il solo confessare che nel globo terrestre vi sia qualcuno che volga in dubbio la plenitudine dei loro diritti, è cosa che eccede di gran lunga la libertà conceduta alle penne dei mortali: oltre che essi molto saviamente preferiscono alle ragioni, a cui, bene o male, si può sempre replicare, gli argomenti del cannone e del carcere duro, ai quali i loro avversari per ora non hanno che rispondere»[12].

Mentre insieme condanna le posizioni dei liberalmoderati a causa delle loro premesse ideologiche che gli appaiono retoriche e fragili. Sicché nell’aspra satira dei Paralipomeni il suo scetticismo sulle possibilità dei liberali italiani, mentre non esclude affatto la sua intima partecipazione ideale alle sorti della libertà e dell’Italia, va spiegato proprio nel dissenso fra le posizioni che egli considera vere e a lor modo progressive nella storia del pensiero umano, e le ideologie spiritualistiche, cattoliche o idealistiche, che egli sentiva sostanzialmente reazionarie e legate a concezioni filosofiche frivole e retoriche. A questa retorica (né sarà qui il caso di discutere i margini di incomprensione e di parzialità del giudizio leopardiano di cui preme comunque rilevare l’estrema forza consequenziaria e la coerenza con il suo pensiero e con le sue convinzioni vissute) egli oppone ora con maggior fermezza la sua persuasione, la persuasione che gli uomini, mediante la loro ragione e la loro esperienza totalmente liberata dai miti, hanno scoperto la miseria della loro situazione esistenziale, la crudeltà della natura e del «brutto poter che ascoso a comun danno impera», ma insieme la dignità e le possibilità costruttive della loro consapevolezza: e che su questo fondamento di dolorosa, ma virile certezza, essi debbono non lasciarsi distrarre da inutili e fuorvianti miti e consolazioni o da inutili e sciocche lotte fratricide, debbono costruire la loro difficile civiltà nella solidarietà fraterna contro la natura che li opprime tirannicamente.

Posizioni ideali che in quest’ultimo Leopardi, cosí ribelle e anticonformistico da volersi chiamare nei Paralipomeni il «Malpensante», vivono non come pure conclusioni speculative, ma come temi profondi dell’animo, tutt’altro che freddo e isterilito, scettico e compiaciuto delle sue negazioni.

Ché forse mai l’animo leopardiano fu cosí vibrante e appassionato, mai questo materialista, piú profondamente spirituale e a suo modo piú religioso di tanti suoi contemporanei professionalmente religiosi e spiritualisti, sentí con tanta appassionatezza il fascino delle cose alte, dei sentimenti superiori, la bellezza di ogni atto puro, disinteressato, eroico. Fosse pure il sacrificio inutile del topo Rubatocchi, che nel poemetto dei Paralipomeni cade solo in battaglia abbandonato da tutto il suo esercito in fuga, non degnato di uno sguardo da un cielo indifferente e chiuso (ma il suo cader non vide il cielo).

Bella virtú, qualor di te s’avvede,

come per lieto avvenimento esulta

lo spirto mio: né da sprezzar ti crede

se in topi anche sii tu nutrita e culta.

Alla bellezza tua ch’ogni altra eccede,

o nota e chiara o ti ritrovi occulta,

sempre si prostra: e non pur vera e salda,

ma imaginata ancor, di te si scalda.

Ahi! ma dove sei tu? sognata o finta

sempre? vera nessun giammai ti vide?

O fosti già coi topi a un tempo estinta,

né piú fra noi la tua beltà sorride?

Ahi se d’allor non fosti invan dipinta,

né con Teseo peristi o con Alcide,

certo d’allora in qua fu ciascun giorno

piú raro il tuo sorriso e meno adorno[13].

Da questo animo cosí caldo e teso, da questa persuasione lirica della miseria e dell’altezza degli uomini tanto piú degni quanto piú consapevoli della loro situazione eppur non perciò rinunciatari e cinici ed egoisti, ma anzi solidali e appassionati per quei valori che illuminano come rari bagliori la loro vita che tanto piú perciò ne sollecitano la tensione piú profonda, sorge l’ultima grande prova della poesia eroica leopardiana, la Ginestra.

Dico ultima grande prova ché il Tramonto della luna può apparire piuttosto un piú pallido ritorno a toni idillici ormai riassorbiti in altri toni diversamente orientati, mentre d’altra parte si dovrebbe forse di piú sottolineare in quel canto l’estrema forza di lucidità energica della diagnosi della vecchiaia e dei mali degli uomini come piú genuinamente pertinente all’interesse e alla poetica che in questo periodo dominava schiettamente l’attività leopardiana.

Nella Ginestra si svolgono piú apertamente i motivi eroici del suo animo, le punte estreme della poetica leopardiana nata con il Pensiero dominante e si attua l’estremo tentativo del Leopardi di portare in poesia tutta la sua piú decisa esperienza e persuasione filosofica, morale, estetica, di fondere l’impegno poetico e l’annuncio di una buona e disillusa novella (al cui valore di decisivo annuncio il poeta volle rimandare con l’iniziale epigrafe evangelica: e gli uomini preferirono le tenebre alla luce) attraverso un’espressione lirica, in una rappresentazione poetica della propria personalità persuasa e annunciatrice e nel mito-parabola della «ginestra».

Non piú eroi della storia illustre classica: Bruto minore o Saffo, ma un’entità naturale delicata e modesta, risoluta e antiretorica, che oppone alla violenza della natura il suo esistere senza superbia e senza servilismo come l’uomo ideale con cui il poeta si identifica in un autoritratto formidabile che non poteva piú contenersi nell’iconografia sonettistica di Alfieri e Foscolo. L’uomo cosciente della situazione umana, del deserto flagellato dalla natura, né vanamente orgoglioso né vilmente implorante e invece pronto alla compassione e alla solidarietà nel suo mondo tutto umano, illuminato da virtú umane cui è base essenziale l’estrema lucidità e la sincerità e la responsabilità non inquinata da nessuna forma di retorica e di autoinganno.

Il poeta si identifica con tutto l’uomo e con tutti i suoi impegni e perciò rifiuta ancor piú nettamente le forme piú tradizionalmente poetiche e le forme idilliche in cui si era espresso cosí altamente, ma secondo una prospettiva che non era quella piú urgente e complessa che adesso lo sollecita e chiede tanto piú chiaramente modi nuovi e se si vuole sconcertanti per chi abbia negli orecchi la musica idillica e dietro ad essa tanta altra musica della tradizione poetica petrarchesca-tassesca-metastasiana a cui il Leopardi idillico era stato piú aperto ed attento.

Eppure anche questa scura e cupa della Ginestra è musica autentica, potente ed audacissima, slanciata in lunghi e articolati impeti sinfonici che nascono al di là della melodia e del canto, e si strutturano in strofe sostenute da uno scatto malinconico e virile che riesce a legar intimamente mosse energiche polemiche e sdegnose, rappresentazioni dello sfondo desolato e grandioso della campagna vesuviana, delle rovine di Pompei, di un cielo immenso e pauroso, ed esortazioni e il messaggio della eroica e disillusa solidarietà umana, proprio in quanto esso è radicalmente un motivo lirico, il passo lirico della personalità persuasa, e non un astratto legame di motivi diversi e frammentari.

Unitario il tema e lo spirito, unitario e coerente il ritmo ed il tono di questa musica potente e severa, e lo stesso scatto perentorio ed energico tende le strofe, le singole immagini, le parole sempre piú nude e insofferenti di velature di sogno, le cose che si presentano nel colore livido e vero di oggetti scabri ed essenziali: «l’arida schiena del formidabile monte sterminator Vesevo, lo qual null’altro allegra arbor né fiore», la «mesta landa», «il flutto indurato», i campi cosparsi

di ceneri infeconde e ricoperti

dell’impietrata lava,

che sotto i passi al pellegrin risona;

dove s’annida e si contorce al sole

la serpe, e dove al noto

cavernoso covil torna il coniglio.

Come si presentano nude ed energiche (con lo stesso tono: ed è, notoriamente, il tono che fa la musica) le mosse eroiche della personalità sdegnata contro il secol superbo e sciocco, bisognosa di una assoluta separazione di responsabilità dalle illusioni ottimistiche delle magnifiche sorti. La stessa forza con cui prima aveva affermato la presenza e la superiorità assoluta del pensiero d’amore, poi l’invocazione della morte, poi l’incomparabilità fra l’immagine interna e la realtà di Aspasia:

[...] Non io

con tal vergogna scenderò sotterra;

ma il disprezzo piuttosto che si serra

di te nel petto mio,

mostrato avrò quanto si possa aperto.

Personalità identificata con l’uomo spiritualmente nobile ed eroico

che a sollevar s’ardisce

gli occhi mortali incontra

al comun fato, e che con franca lingua,

nulla al ver detraendo,

confessa il mal che ci fu dato in sorte,

e il basso stato e frale;

quella che grande e forte

mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire

fraterne, ancor piú gravi

d’ogni altro danno, accresce

alle miserie sue, l’uomo incolpando

del suo dolor, ma dà la colpa a quella

che veramente è rea, che de’ mortali

madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

congiunta esser pensando,

siccome è il vero, ed ordinata in pria

l’umana compagnia,

tutti fra se confederati estima

gli uomini, e tutti abbraccia

con vero amor, porgendo

valida e pronta ed aspettando aita

negli alterni perigli e nelle angosce

della guerra comune.

Fondamentale unità e condizione lirica romantica che corrisponde ad un unico tono di rappresentazione-affermazione in cui i due termini sono inseparabili come meglio si può intendere con l’intera lettura di quel singolare capolavoro o almeno con quella delle sue strofe (la quarta) in cui il poeta dalla contemplazione del firmamento affascinata e paurosa passa alla constatazione della piccolezza dell’uomo e della sua vana superbia.

Ma non si tratta, come si potrebbe astrattamente pensare, e a volte si è detto per pigra adesione alle formule piú consuete, di un passaggio da un momento poetico contemplativo ad uno polemico prosastico, ché i due momenti vivono dello stesso slancio e si sviluppano con lo stesso ritmo, lo stesso accento, lo stesso linguaggio e la contemplazione severa e paurosa dell’infinità dei cieli non avrebbe senso poetico in quel suo approfondirsi e scandirsi ossessivo se non vivesse liricamente come parte di un’unica affermazione poetica, di un unico sentimento della sperduta esistenza e piccolezza della terra e dell’uomo in un infinito la cui contemplazione non può piú risolversi in estasi idillica, ma in conclusione disperata ed eroica. Ché se nella prima parte si può pensare come ad un singolare ritorno di temi da Infinito e da Canto notturno, qui in realtà c’è tutt’altro tono: la sicurezza di una persuasione, che non sfugge l’arido vero e non lo armonizza ed attenua nelle domande incantevoli del Canto notturno ma lo affronta, se ne fa apostolo, ne rappresenta liricamente tutti gli aspetti e le conclusioni di messaggio del poeta, uomo tra gli uomini:

Sovente in queste rive,

che desolate, a bruno

veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

seggo la notte; e su la mesta landa

in purissimo azzurro

veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,

cui di lontan fa specchio

il mare, e tutto di scintille in giro

per lo voto seren brillare il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

ch’a lor sembrano un punto,

e sono immense, in guisa

che un punto a petto loro son terra e mare

veracemente; a cui

l’uomo non pur, ma questo

globo ove l’uomo è nulla,

sconosciuto è del tutto; e quando miro

quegli ancor piú senz’alcun fin remoti

nodi quasi di stelle,

ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo

e non la terra sol, ma tutte in uno,

del numero infinite e della mole,

con l’aureo sole insiem, le nostre stelle

o sono ignote, o cosí paion come

essi alla terra, un punto

di luce nebulosa; al pensier mio

che sembri allora, o prole

dell’uomo? E rimembrando

il tuo stato quaggiú, di cui fa segno

il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,

che tu signora e fine

credi tu data al Tutto, e quante volte

favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

per tua cagion, dell’universe cose

scender gli autori, e conversar sovente

co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi

sogni rinnovellando, ai saggi insulta

fin la presente età, che in conoscenza

ed in civil costume

sembra tutte avanzar; qual moto allora,

mortal prole infelice, o qual pensiero

verso te finalmente il cor m’assale?

Non so se il riso o la pietà prevale.

Un riso cattivo di escluso, di incapace a vivere, di negatore di provvidenziali cure superiori perché malato e deforme? Come, ahimè, lo spiritualista e «cristiano» Tommaseo rappresentava le petit comte che si dondolava sulla riva del mare canterellando: «il n’y a pas des dieux parce que je suis bossu; je suis bossu car il n’y a pas des dieux»?

Lo scherno e lo sdegno che anche in questo ultimo capolavoro si esprimono con una singolare forza di sintesi di pensiero, si cambiano – nelle parti positive della Ginestra – nella simpatia e nella vicinanza profonda con cui il Leopardi, al termine della sua lunga e sofferta esperienza vitale, rinsaldava piú fortemente i suoi vincoli di uomo con un’umanità sobria, eroica, antiretorica, quale egli la raffigurava nel suo ultimo messaggio poetico.

Il quale è, a chi ben lo intende, l’esito estremo e coerente di uno svolgimento di poesia e di pensiero, e di presenza totale di una personalità di cui non si capirebbe tutta la grandezza e tutto il significato storico (e la forza nella nostra tradizione poetica e culturale) se non si valutasse nel Leopardi non solo il grandissimo poeta dell’idillio, ma anche il poeta della persuasione eroica. Perché solo nel complesso sviluppo della sua esperienza e della sua personalità quale si consegnò negli ultimi canti, si può cogliere interamente, entro e anche al di là del puro valore poetico, tutta la grandezza del Leopardi, la sua decisiva presenza nella nostra tradizione moderna.

Infatti – a parte ogni nostra personale e attuale consonanza o dissonanza rispetto alle posizioni ideologiche e spirituali del Leopardi e alle loro possibili riprese in altre situazioni storiche e culturali, e a parte ogni altra considerazione sull’importanza e il significato che le sue posizioni hanno nella storia del romanticismo europeo e nella storia del nostro stesso Risorgimento – dovrà esser ben chiaro che la sua estrema energia persuasa, la sua assoluta sincerità, il suo rifiuto di ogni compromesso e di ogni via facile, il coraggio sofferto con cui egli condusse sino in fondo le conseguenze del suo pensiero e le tradusse in grande poesia, fanno di lui una delle presenze piú alte, una delle forze piú eccezionali nella nostra storia, una fonte perenne di stimolo estetico e una severa lezione umana, e, alla fine, per tutti, uno stimolo potente alla serietà della vita e della poesia, un profondo antidoto (come già sentí il De Sanctis nel suo celebre saggio su Schopenhauer e Leopardi) contro ogni tentazione edonistica e retorica, contro ogni conformismo e opportunismo ideologico e morale, contro ogni elusione, per debolezza o per calcolo, del nostro supremo dovere di essere risolutamente, strenuamente fedeli a noi stessi, al nostro mondo interiore, alle nostre persuasioni, ai nostri valori ideali: che è poi il senso piú profondo che il Leopardi dava alla parola «eroismo».

Avvertenza

Questo saggio, letto a Recanati come discorso celebrativo il 29 giugno 1960 (e pubblicato nella rivista «Il Ponte», dicembre 1960), segna chiaramente la ripresa piú decisa della concreta esplicazione del mio interesse per Leopardi, che, dopo il volume del ’47 e il volumetto del ’50, Tre liriche del Leopardi, si era risolto nella cura dell’edizione critica e commentata laterziana della monografia leopardiana del De Sanctis, 1952 e 1953 (l’introduzione a quell’edizione, riveduta in una conferenza al Politecnico di Zurigo, 1956, fu pubblicata, nel ’60, in Carducci e altri saggi presso l’editore Einaudi e ripubblicata, con una nota assai «correttiva», nella nuova edizione di quel volume, Piccola Biblioteca Einaudi, 1972), mentre indubbiamente aveva agito come stimolo attrattivo già nel capitolo ossianesco del mio Preromanticismo italiano cit., e poi nella preparazione del mio saggio sul Metastasio (scritto in dispense universitarie genovesi del ’51-52 e rifuso e ampliato nel volume L’Arcadia e il Metastasio, Firenze, La Nuova Italia, 1963) interpretato anche sulla base di un importante avallo leopardiano e, piú, sul riverbero adiuvante della utilizzazione leopardiana di tanti recitativi metastasiani.

Nel presente saggio la particolare sollecitazione commemorativa «recanatese» (sollecitazione positiva e per attrito: stesi lo scritto in una stanza del palazzo Leopardi per poi leggerlo a un pubblico in cui si mescolavano giovani appassionati e «malpensanti», e notabili e «autorità» piú vicini a Monaldo che a Giacomo) recuperava e stimolava ulteriormente la maturazione del mio assiduo ripensamento leopardiano sviluppatosi anche in corrispondenza con la mia piú generale maturazione metodologica (avevo già pubblicato nella «Rassegna della letteratura italiana», I, 1960, l’abbozzo di Poetica, critica e storia letteraria, già gremito di riferimenti leopardiani, che riprendevano e sviluppavano in parte le mie idee «1947» sul grande poeta) come, d’altronde, il diretto commento di vari canti del periodo precedente al 1831, nel III volume dell’antologia Scrittori d’Italia (a c. di N. Sapegno, G. Trombatore, W. Binni, Firenze, La Nuova Italia, 1948), aveva già preparato elementi di diversa accentuazione tensiva, di maggiore unità pensiero-poesia[14]nel caso di poesie (canzoni, «idilli» e «operette») che la mia prospettiva iniziale piú schematica (fra la tesine del ’34 e il volume del ’47) aveva piú livellato, malgrado fermenti e spinte pur presenti già in quella prospettiva. Né, ovviamente, quella maturazione mancava dello stimolo sia di una piú attenta considerazione anzitutto del saggio di Luporini (assente nel mio volume del ’47) sia di altri interventi successivi a quella data, come, ad esempio, quello, piuttosto caotico, ma, per vari aspetti, assai stimolante, e ingiustamente troppo ignorato dalla critica, dell’introduzione di S.A. Nulli (prefazione a G. L., Poesie e prose, 2a ediz. riveduta, Milano, 1959), o i primi interventi di S. Timpanaro (Le idee di P. Giordani, in «Società», 1954, e La filologia di G. Leopardi, Firenze, 1955)[15].

Se poi l’occasione celebrativa e l’attrito polemico con un certo pubblico «benpensante» poterono anche indurmi ad affermazioni poi per me piú equivoche (come quella di un Leopardi «a suo modo» «piú religioso di tanti suoi contemporanei professionalmente religiosi e spiritualisti»), e se – alla luce della mia interpretazione piú recente – l’insieme di questo discorso può apparire come un certo compromesso, nella prima sua parte, fra residui di posizioni meno «mie» e lo sviluppo di quelle piú mie (ad esempio l’accenno alle Operette morali, assai incerto, nella sua stessa compendiosità, fra spinte nuove e residui vecchi), sta di fatto che esso pur costituiva il chiaro inizio di una mia nuova ripresa leopardiana abbozzando un diagramma leopardiano che metteva alla base di tutto Leopardi la fondamentale importanza della «morale eroica» e tendeva ad assicurare alle stessa poesia dei cosiddetti «grandi idilli» una nuova tensione elegiaca, una nuova pressione ideologico-esistenziale, fra radicalmente pessimistica e pur ansiosa di vita e felicità. E la stessa presentazione dell’ultimo Leopardi si faceva ancor piú storicamente giustificata nell’accentuazione della sua persuasione materialistica e della sua strenua lotta contro lo spiritualismo, il reazionarismo della Restaurazione e lo spiritualismo e il moderatismo delle stesse tendenze liberali risorgimentali.

Ripubblico ora il saggio con minime modifiche.


1 Spunti notevoli in tale senso si trovano soprattutto nelle note pagine dedicate al Leopardi da L. Salvatorelli nel suo Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, Torino 1935, e poi nel fondamentale saggio di C. Luporini, Leopardi progressivo, in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze 1947.

2 V. per l’Ultimo canto di Saffo l’articolo di C. Muscetta nella «Rassegna della letteratura italiana», 3, 1959, ora in Ritratti e letture, Milano, 1961, p. 230 ss.

3 Non vi è dubbio sul fatto che entro la grande linea lirica Alfieri-Foscolo-Leopardi, quest’ultimo rappresenta la voce piú alta e piú pura, la meno insidiata (e non perché «idillica» e priva di impegni) da pericoli retorici e snobistici già dal suo piú intimo e profondo atteggiarsi umano. Il che aprirebbe un lungo discorso da precisare molto bene a scanso poi di qualche equivoca contrapposizione, molto snobistica e dilettantesca, tra Leopardi e Foscolo.

4 Tutte le op. cit., I, p. 1367. [Riferimento a G. Leopardi, Tutte le opere (1969), inserito nelle ediz. successive del testo].

5 Tutte le op. cit., I, p. 1382.

6 Tutte le op. cit., I, pp. 238-239.

7 Del titanismo leopardiano parla ora U. Bosco nel volumetto Titanismo e pietà nella poesia di G. Leopardi, Firenze 1957. In realtà la posizione leopardiana è pur diversa da quella che si può chiamare «titanica» in quanto comporta un tanto piú lucido controllo razionale (si potrebbe anzi dire che Leopardi è – pur lontanissimo dal poeta razionalista alla Pope o alla Gottsched – uno dei poeti piú alieni dai puri impeti della personalità senza controllo, della rivolta puramente eversiva). Leopardi aveva un cervello potente e una potente intelaiatura intellettuale e culturale e la sua posizione romantica è anche una posizione di civiltà e di negazione-affermazione potentemente inserita anche in una storia di idee e di preoccupazioni etico-civili. Piú vicino a Shelley e Vigny che a Byron e a Blake. L’avvicinamento al «titanismo» romantico (che io stesso notai a proposito dell’esclusione del Leopardi dal quadro del Černý nel suo Éssai sur le titanisme dans la poésie européenne, Prague 1935) – e lo feci per mostrare comunque il rapporto europeo e romantico che va sottolineato – deve essere poi ben precisato (al di là di quanto è stato fatto nei rapporti Alfieri-Sturm und Drang) con quanto sopra dicevo e in rapporto a posizioni poetiche-ideali che superano il semplice slancio dell’io compresso e ribelle, l’impeto della protesta fine a se stessa o risolta in forme visionarie e profetiche senza adeguata base razionale e culturale. Del resto – e il discorso si aprirebbe denso e complesso – egli è ben parte di una tradizione sette-ottocentesca italiana in cui poesia e intelletto sono insieme dialettiche e collaboranti sino al carattere, comune ad Alfieri, Foscolo, Leopardi, di una estrema forza lirica e di una congiunta chiarezza, consapevolezza e attività mentale e culturale.

8 Su tale posizione metodologica mia rimando al saggio Poetica, critica e storia letteraria (1960,1963), che contiene anche un esempio leopardiano attinente alle idee qui esposte.

9 Si veda in proposito il mio Preromanticismo italiano cit. e in particolare il capitolo sull’Ossian cesarottiano.

10 Particolarmente per una presentazione critica dei Paralipomeni rinvio al capitolo relativo del mio La nuova poetica leopardiana cit.

11 Secondo l’utile e acuta indicazione del Leopardi progressivo di C. Luporini (cit.). Ma sull’estensione di proposte di quel saggio e sui miei parziali dissensi si veda la mia recensione nel «Nuovo Corriere» di Firenze, 17 luglio 1948. Fondamentale rimane nel Leopardi, di fronte a molte posizioni «socialiste» di primo Ottocento, la distinzione fra masse e individui.

12 Tutte le op. cit., I, pp. 1410-1411.

13 Tutte le op. cit., I, p. 275.

14 Ad esempio il commento dell’Infinito o quello al Dialogo della Natura e di un Islandese.

15 E cosí piú attentamente considerai, nel saggio introduttivo e nel commento ai Canti di L. Russo cit., il rilievo della componente «agonistica» dell’intera personalità leopardiana, anche se quel grande critico l’aveva poco saldamente ed evolutivamente impiegata, fortemente sminuendola in una decisiva nota al Bruto minore.